Vi ripropongo il post del 15 giugno ampliato (vedi in fondo) con la traduzione di altri stralci dell'intervista a Paul Krugman pubblicata nei giorni scorsi sul Guardian a firma di Will Hutton e nella quale il premio Nobel per l'economia getta un interessante sguardo anche sull'Europa.Mercato Libero segnala oggi un'
intervista sul Guardian a Paul Krugman. Da non perdere perchè, come sempre, il premio Nobel per l'economia, con la sua capacità di smontare i luoghi comuni, ci offre una visione non convenzionale e non "embedded" della situazione e delle prospettive della crisi.
Come quando, condendo l'apparentemente arida materia con un pò di ironia, che non guasta mai, si beffa dello stato confusionale in cui versano i repubblicani che attaccano l'amministrazione Obama per le indebite pressioni del Tesoro su Bank of America perchè concludesse l'acquisizione della ormai fallita Merrill Lynch, dimenticando che il misfatto avvenne sotto Bush ed ad opera del suo ministro Paulson.
Ma tant'è, chi non ricorda la favola del lupo che cercava ogni pretesto, pur di giustificare la sua intenzione di fare pranzo a base d'agnello? Ecco allora i nostri eroi vetero liberisti parlare di fallimento per il fatto che dopo quattro mesi di cura Obama il piano di stimoli fiscali non abbia ancora dato i suoi frutti, giacchè la disoccupazione stà ancora crescendo.
Un gioco da ragazzi per Paul Krugman, che pure non è stato tenero nemmeno con Obama e non gliel'ha di certo mandata a dire, dare una bella
lezione di storia a questi quattro dinosauri citando proprio uno dei loro padri fondatori. A quanto pare se Obama non ha la bacchetta magica nemmeno il presidente Reagan la combinò poi tanto giusta se il tasso di disoccupazione continuò a salire per altri due anni dopo il via del suo programma di tagli fiscali!
Ma torniamo all'intervista. Il pensiero che tormenta Krugman, sono mesi ormai che continua a ripeterlo, è che corriamo il rischio di non uscire più da questa recessione, chiamando a sostegno dei suoi timori il parallelo con il "decennio perduto" del Giappone. L'intervistatore gli chiede da dove nasca il suo pessimismo: in fondo la situazione negli Stati Uniti e Gran Bretagna non è la stessa determinatasi in Giappone nei primi anni '90. Sentite Krugman come argomenta il suo allarme che quello che è accaduto in Giappone possa accadere al mondo intero.
The thing about Japan, as with all of these cases, is how much people claim to know what happened, without having any evidence. What we do know is that recessions normally end everywhere because the monetary authority cuts interest rates a lot, and that gets things moving. And what we know in Japan was that eventually they cut their interest rates to zero and that wasn't enough. And, so far, although we made the cuts faster than they did and cut them all the way to zero, it isn't enough. We've hit that lower bound the same as they did. Now, everything after that is more or less speculation.
For example, were the problems with the Japanese banks the core problem? There are some stories about credit rationing, but they are not overwhelming. Certainly, when we look at the Japanese recovery, there was not a great surge of business investment. There was primarily a surge of exports. But was fixing the banks central to export growth?
In their case, the problems had a lot to do with demography. That made them a natural capital exporter, from older savers, and also made it harder for them to have enough demand. They also had one hell of a bubble in the 1980s and the wreckage left behind by that bubble - in their case a highly leveraged corporate sector - was and is a drag on the economy.
The size of the shock to our systems is going to be much bigger than what happened to Japan in the 1990s. They never had a freefall in their economy - a period when GDP declined by 3%, 4%. It is by no means clear that the underlying differences in the structure of the situation are significant. What we do know is that the zero bound is real. We know that there are situations in which ordinary monetary policy loses all traction. And we know that we're in one now.
Già, spesso la gente parla delle cose senza conoscerle. Tutto quello che sappiamo è che in teoria le recessioni hanno fine quando le autorità tagliano di molto i tassi d'interesse, e basta questo per rimettere in moto le cose. Dal Giappone abbiamo imparato che questo non è stato sufficiente. Finora abbiamo tagliato i tassi più velocemente che in Giappone e fin quasi allo zero, e non è stato abbastanza. Ogni cosa avvenuta successivamente, quello che sta accadendo ora, è più o meno speculazione.
La misura dello shock cui è sottoposto il nostro sistema sta diventando molto più grande di quello che colpì il Giappone negli anni '90. Loro non hanno avuto mai un'economia in caduta libera, un periodo in cui il Prodotto interno lordo è crollato del 3 o 4 per cento. Che ci siano delle differenze nei sistemi non è significativo. Quel che sappiamo è che la crescita zero è reale. Sappiamo che ci sono situazioni in cui le politiche monetarie perdono tutta la loro forza di trascinamento. Sappiamo che ci troviamo in una di queste situazioni.
E i segnali di ripresa? Krugman spera di sbagliarsi ma la domanda a cui rispondere è: da dove pensiamo venga questa ripresa? Non è facile dirlo se guardiamo a questi due ultimi anni nel loro complesso.
Who knows if the stockmarket makes sense or not? It was pricing in the possibility of an apocalypse a few months ago. That possibility seems to have receded, so it makes sense for the markets to come up, but that's not saying that the economy is going to be great. If you do the comparison not with where they were three months ago, but where they were two years ago, then the markets still seem awfully depressed.
Chissà se i mercati azionari hanno o meno un senso? Pochi mesi fa sembrava l'apocalisse e questa possibilità sembra ora scongiurata, ma non c'è nulla che confermi che l'economia stia tornando ai livelli precedenti. Se comparate i listini azionari non con dove erano tre mesi fa, ma con due anni fa, allora i mercati sembrano ancora terribilmente depressi.
In conclusione, cosa vede dunque Paul Krugman dietro l'angolo? La "Nipponizzazione" dell'economia mondiale con qualche caso di "Argentinaficazione", ovvero grappoli di paesi in default. Comunque non fermatevi qui, tutta l'intervista merita un'attenta lettura.
UpdateWill Hutton. Lei sostiene che quel che è accaduto in Giappone potrebbe ripetersi in Usa e Regno Unito o, forse, per l’intera economia mondiale. Ricordiamo che il pil giapponese, quest’anno, sarà pari a quello del 1992: 17 anni perduti, insomma.
Paul Krugman. Sì, non credo che il pericolo si sia allontanato troppo. Certo si è ridotto il pericolo di una Grande depressione. Ma nel primo anno la crisi è stata assai peggiore che negli anni Novanta in Giappone.
W.H. Ma qual è la ragione di tanto pessimismo? Uno potrebbe risponderle: caro Krugman, il Giappone è un caso a parte. È un’economia votata all’export con una moneta molto sopravvalutata. Soprattutto, la risposta dei politici è sempre stata in ritardo, cosa che non è avvenuta a Londra o negli Usa.
P.K. La realtà è che in Giappone si è fatto quel che si è soliti fare di fronte a una recessione: tagliare i tassi fino a quota zero, ma non è stato sufficiente a far ripartire l’economia. E da noi, anche se siamo stati più tempestivi nel taglio, non è stato comunque sufficiente. Questa è l’essenza del problema. Tutto il resto è secondario. Ci sono situazioni in cui la politica monetaria tradizionale perde efficacia. E noi sappiamo che ne stiamo attraversando una.
W.H. Ma un ottimista potrebbe obiettare che ci sono quei segnali di ripresa che lei si rifiuta di vedere. Le Borse hanno recuperato un buon 25%. Il mercato immobiliare sembra aver toccato i fondo, la fiducia delle imprese è in risalita.
P.K. Ci sono segnali di assestamento, piuttosto che di ripresa. Le Borse, pochi mesi fa, ipotizzavano l’Apocalisse. Ora il rischio sembra superato, e i mercati azionari ne hanno preso atto. Ma non ci stanno segnalando che l’economia viaggia verso la ripresa. Non vanno confrontati i prezzi attuali con tre mesi fa. Se li paragoniamo a quelli di due anni fa, abbiamo la misura dello stato attuale di depressione.
W.H. Ci sono i problemi dell’indebitamento degli Stati, ma anche quelli connessi alle disponibilità economiche dei consumatori.
P.K. La crisi immobiliare e la caduta delle azioni hanno senz’altro impoverito le famiglie. Ed è probabile che i consumatori, carichi di debiti, incontrino difficoltà a spendere. La realtà è che la teoria economica ha studiato gli effetti del deficit nei Paesi del Terzo Mondo. Ma non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi che questo si potesse verificare nei Paesi forti.
W.H. C’è un rischio Argentina o Malaysia fine anni Novanta...
P.K. Nel momento peggiore abbiamo attraversato una fase di «giapponesizzazione» con un un pizzico di «argentinizzazione». Ora abbiamo superato quel rischio. Ma la «giapponesizzazione» rimane.
W.H. Qual è il cuore del problema Giappone, 17 anni dopo lo scoppio della crisi?
P.K. È molto difficile creare abbastanza domanda interna, e così riequilibrare i flussi della bilancia commerciale, in un Paese con una realtà demografica negativa.
W.H. Dunque, il problema della «giapponesizzazione» è un mix di squilibri commerciali uniti all’invecchiamento.
P.K. Sì, ma non vale per gli Stati Uniti. Semmai è il caso di Germania e Italia.
W.H. Confesso che la tesi della «giapponesizzazione» a livello globale non mi convince granché. Ma credo che la tesi valga per la Germania e, per questa via, cominci a contagiare l’intera economia mondiale.
P.K. Il mercato interno tedesco è del tutto inadeguato. Il benessere della Germania, nei primi sette anni del secolo, è stato legata solo a un gigantesco surplus della bilancia commerciale. Com’è possibile che la Germania, che non ha subito la bolla immobiliare, abbia patito la peggior discesa del pil tra le grandi economie? La risposta è che loro esportavano in Paesi dove maturava la Bolla. Scoppiata questa, la Germania ha perso i clienti. È Berlino il problema vero su scala globale.
W.H. In cima al dossier c’è poi una possibile, devastante, crisi bancaria. Il Fondo Monetario teme che la Germania abbia almeno 500 miliardi di sofferenze non emerse. Le banche tedesche hanno mille miliardi di dollari, se non di più, investiti in cdo che possono essere assorbiti solo congelando le perdite. Noi inglesi abbiamo avuto Rbs, voi Americani Citigroup. La Germania ha perduto sei punti di pil senza che la crisi bancaria abbia toccato il fondo.
P.K. Questo è il versante finanziario della crisi. Certo, noi partiamo dall’ipotesi che la crisi sia essenzialmente finanziaria. Ma non è detto che sia vero. È vero che Lehman è stato il campanello d’allarme. Ma il crollo dell’immobiliare era precedente. La caduta del business è in buona parte dovuta all’eccesso di capacità produttiva, a sua volta provocato dal calo dei consumi e del crollo dell’immobiliare. Ristabilire la fiducia nella finanza è una condizione necessaria. Ma non sufficiente.
W.H. È un quadro desolante...
P.K. Sì, ed è anche per questo che sono così depresso.
W.H. Lei sostiene che siamo al 12esimo mese di una depressione destinata a durare 36 mesi, sebbene in forma meno grave. È una prospettiva scioccante.
P.K. Nella recessione del 2001 ci sono voluti 30 mesi prima che ripartisse il mercato del lavoro.
W.H. È ancora convinto che la strategia migliore passi dagli stimoli della politica fiscale?
P.K. Sì, è lo strumento migliore per frenare la recessione. È opinione comune che gli investimenti giapponesi in infrastrutture siano stati inefficaci. Io penso, al contrario, che hanno evitato il collasso. Obama ha messo in cantiere uno stimolo di poco inferiore al 5% del pil ma, in realtà, si tratta di un 4% spalmato in due anni e mezzo. Basta? Sono convinto che presto arriverà una seconda manovra di stimolo.
W.H. E poi?
P.K. Sotto con le regole della finanza. Bisogna imbrigliare il mostro. L’eccessiva crescita della leva nel settore privato è quel che ci ha resi così vulnerabili.
W.H. Più fisco, meno finanza. Così cambia la via americana al capitalismo.
P.K. Non sono così cosmico. Ma è vero che Gordon Gekko è arrivato tra noi grazie alla finanziarizzazione. Io penso che abbiamo bisogno di un po’ di welfare in più e anche di un po’ di socialdemocrazia. E di sindacato.
W.H. Chiudiamo con Obama. Lei lo ha molto criticato in passato.
P.K. Sono sempre più soddisfatto. Chiedevo uno stimolo fiscale più forte, penso che lo farà. Chiedevo più aggressività verso le banche: vedremo se si dovrà riprender la battaglia. Ma la riforma della sanità è buona, come la battaglia sul clima. Io, che ero scettico, comincio a sperare nel New Deal. Obama ha una grande personalità. Ed è un tale sollievo avere finalmente alla Casa Bianca uno che merita il tuo rispetto.
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