Le Big 4 verso la nazionalizzazione
Avevo già scritto del dilemma che attraversa la politica americana sul tema della nazionalizzazione delle maggiori e più disastrate banche a stelle e strisce. Meno dubbiosa la maggioranza degli economisti, ormai tutti schierati a favore della nazionalizzazione, a cominciare dal premio Nobel, Paul Krugman, per finire con Nouriel Roubini (vedi il video), il primo economista ad aver predetto la crisi finanziaria, sbeffeggiato all'epoca, e celebrato oggi, forse anche troppo, come un guru della finanza.
Ma approfondiamo l'argomento con dei dati. Uno studio dell'autorevole istituto di ricerca CreditSights, quantifica le potenziali perdite delle prime sei grandi banche americane nei prossimi due anni e di conseguenza l'ammontare di quelli che dovrebbero essere gli aiuti federali per salvarle: Wells Fargo, 119 miliardi di dollari; Bank of America, 99 miliardi; JPMorgan, 124 miliardi; Citigroup, 101 miliardi; Goldman Sachs, 47 miliardi; Morgan Stanley, 34 miliardi.
Focalizziamoci solo sulle quattro grandi banche commerciali escludendo le due investment banking diventate banche solo recentemente per usufruire della più favorevole legislazione fallimentare. Parliamo di Citigroup, BofA, Wells Fargo, JPMorgan. Secondo questa stima, hanno bisogno di circa 450 miliardi di dollari. Nello stesso tempo il loro valore di mercato in base alla capitalizzazione di Borsa è di solo circa 200 miliardi. Quelle banche sono dunque tecnicamente fallite e una parte se non la totalità del loro valore deriva dall'effetto Geithner, ovvero dalla speranza degli azionisti di ricevere aiuti statali.
Alla luce di questi numeri, è estremamente difficile salvare queste banche senza che sia fatto un enorme regalo agli attuali azionisti oppure senza nazionalizzarle temporaneamente, risanarle e rivenderle poi a investitori privati. La prima soluzione è sentita come politicamente inaccettabile nonché sbagliata ormai da tutti i contribuenti Americani, mentre la seconda è ritenuta non praticabile perchè estranea alla "cultura" americana dall'amministrazione Obama che, in realtà, abbiamo visto, è ostaggio dei repubblicani e di Wall Street, strenuamente contrari alla statalizzazione.
Derivano da queste contraddizioni le incertezze della politica e l'estrema vaghezza del piano Geithner. Così a Krugman e agli economisti favorevoli alla nazionalizzazione non resta che aspettare che lo "stress test" - la verifica degli asset delle suddette banche da parte del Tesoro - mostri inevitabilmente la situazione disastrosa delle quattro big banks, rendendo ineluttabile l'intervento pubblico.
Ma approfondiamo l'argomento con dei dati. Uno studio dell'autorevole istituto di ricerca CreditSights, quantifica le potenziali perdite delle prime sei grandi banche americane nei prossimi due anni e di conseguenza l'ammontare di quelli che dovrebbero essere gli aiuti federali per salvarle: Wells Fargo, 119 miliardi di dollari; Bank of America, 99 miliardi; JPMorgan, 124 miliardi; Citigroup, 101 miliardi; Goldman Sachs, 47 miliardi; Morgan Stanley, 34 miliardi.
Focalizziamoci solo sulle quattro grandi banche commerciali escludendo le due investment banking diventate banche solo recentemente per usufruire della più favorevole legislazione fallimentare. Parliamo di Citigroup, BofA, Wells Fargo, JPMorgan. Secondo questa stima, hanno bisogno di circa 450 miliardi di dollari. Nello stesso tempo il loro valore di mercato in base alla capitalizzazione di Borsa è di solo circa 200 miliardi. Quelle banche sono dunque tecnicamente fallite e una parte se non la totalità del loro valore deriva dall'effetto Geithner, ovvero dalla speranza degli azionisti di ricevere aiuti statali.
Alla luce di questi numeri, è estremamente difficile salvare queste banche senza che sia fatto un enorme regalo agli attuali azionisti oppure senza nazionalizzarle temporaneamente, risanarle e rivenderle poi a investitori privati. La prima soluzione è sentita come politicamente inaccettabile nonché sbagliata ormai da tutti i contribuenti Americani, mentre la seconda è ritenuta non praticabile perchè estranea alla "cultura" americana dall'amministrazione Obama che, in realtà, abbiamo visto, è ostaggio dei repubblicani e di Wall Street, strenuamente contrari alla statalizzazione.
Derivano da queste contraddizioni le incertezze della politica e l'estrema vaghezza del piano Geithner. Così a Krugman e agli economisti favorevoli alla nazionalizzazione non resta che aspettare che lo "stress test" - la verifica degli asset delle suddette banche da parte del Tesoro - mostri inevitabilmente la situazione disastrosa delle quattro big banks, rendendo ineluttabile l'intervento pubblico.
Labels: BofA, Citigroup, JPMorgan, nazionalizzazione, nouriel roubini, obama, paul krugman, Wells Fargo
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